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Presentazione di Giuliana Maggini
Moniris è un greco di Patmos, nostro contemporaneo,
provato ma non vinto dalla vita. Alle sue crudezze egli
vuole inizialmente contrapporre la cultura della sua terra,
la Grecia, con i suoi miti, il momento più vero e solenne
della religiosità ellenica. Ma decide poi di uscire da se
stesso e dal suo mondo per rispondere a delle attese
insoddisfatte, e l’inizio del suo pellegrinare non può che
essere dalla Palestina, e dal gesto divino della creazione.
In un villaggio senza nome, ad un ignoto ascoltatore,
Moniris racconta. Non occorrono indicazioni; nomi e luoghi
sono di tutti e di sempre, Moniris è l’uomo che ricerca ed
indaga, ed è Giobbe, non rassegnato sempre ad accettare
silenziosamente la volontà di un misterioso destino: il
mondo semitico e il mondo greco hanno un comune denominatore
nel dolore. L’ignoto ascoltatore fissa nei suoi appunti un
racconto che dal deserto giunge ai dorsi boscosi
dell’Appennino.
La peregrinatio di Moniris è ad quaerendam pietatem, alla
ricerca della pietà, per sé e per tutte le creature
sofferenti. Pietà non è la devozione del pio né la
compassione alimentata dalla emotività. È piuttosto il
movimento circolare della compassione che assume su di sé e
restituisce il dolore reso puro dal senso del suo esistere.
Credetti, allora, di capire che
pietas voleva per lui significare ogni
manifestazione della religiosità che è anima del
mondo: in essa si racchiudeva il sentimento dello spazio
e del tempo, ogni moto del cuore, l’immagine
indefinibile che è dei giorni e dell’eternità.
Allo stesso modo, la peregrinatio non è
esattamente pellegrinaggio. Il primo termine ha in sé, in
più, l’inquietudine del vagare senza conoscere l’approdo, il
punto d’arrivo anche solo sperato. Ciò che si cerca, si
conoscerà solo incontrandolo, per caso o per grazia.
L’inizio
Moniris racconta dunque dove il suo destino, e la sua
volontà che l’ha fatto proprio, lo hanno condotto, dopo
essere tornato all’inizio della avventura umana in terra,
alla caduta e alla perdita dell’Eden. Da qui ha avuto inizio
ogni peregrinazione, ma a quella pienezza ognuno tende e si
sente chiamato, ancora in questo nostro mondo così avanzato,
colto, sicuro della sua scienza.
L’itinerario ha dunque inizio dal mistero del peccato
originale che ha spinto Adamo ed Eva verso il dolore che
mancava alla loro vita, quasi un completamento dei doni ad
essi elargiti, l’unica cosa assente dal Paradiso: Adam,
l’umanità, ed Eva, colei che vive, anzi la vita stessa
che verrà donata ogni giorno a tutti coloro che
attraverseranno, per breve o lungo tratto, le vie del mondo.
Il dolore ha inizio dal peccato:
Quel sentimento di ribelle
trasgressione già vivo nell’animo del primo uomo: forse,
soltanto frutto di instabile curiosità: o, dietro più
attenta riflessione, innato desiderio di spingersi alla
scoperta di ogni nascosto recesso del paradiso
terrestre, rispondendo così agli impulsi di una natura
estremamente fragile, ma già inquieta e avventurosa.
Una caduta dalle pesanti conseguenze inconsciamente
cercata, forse anche provvidenziale, per interrompere una
eternità sempre uguale a se stessa, non conquistata e perciò
non capita.
Il dolore acquista ben presto, però, una sua autonomia, la
forza di una presenza inspiegabile. Giobbe nega
vigorosamente che le sue disgrazie siano conseguenza di
colpe, che non ha commesso ma non giunge, per disperazione o
ribellione, a negare una presenza divina, con cui parla
liberamente, e che non si accontenta più di un ossequio
tradizionale. Tuttavia, il dramma di Giobbe, come la
disperata rassegnazione di Qoélet, sono parentesi tra gli
scritti del popolo ebraico che sempre sottolineano il
difficile rapporto di Elohim e la gente che si è scelto come
sua eredità. L’elezione, Abele, ad esempio, e non Caino, è
ancora un altro mistero che segna con dolore il cammino
dell’uomo: essa richiede risposta chiara e adesione totale
al si come al no.
La grandiosità della creazione, ingentilita dal giardino
pieno di piante e di animali, anch’essi felici e che,
compagni dell’uomo ma di esso meno compianti, non lo saranno
mai più, richiama altri grandi scenari di miti cosmici. Di
essi, ancora un uomo, Prometeo, il grande e gentile santo
protettore della mitologia greca, contravviene agli
ordini di Zeus. Figura di Cristo, Prometeo è legato con
catene, e con un chiodo nel costato, ad una croce posta sul
più alto monte della Scizia. Dunque, la ribellione agli
ordini divini non si manifesta soltanto in ambiente
biblico….
Dai drammi del Pentateuco si srotolano i rotoli della
Bibbia, i libri per eccellenza, attraverso le vertigini di
un Dio geloso e possessivo e gli abissi dei tradimenti e
delle crudeltà. Essi sono l’interpretazione teologica della
storia di un popolo che gradatamente affina il suo rapporto
con la divinità e prepara il terreno al Messia che porterà
la parola oltre i deserti lasciandosi alle spalle un
rapporto basato su leggi e prescrizioni. In quei deserti c’è
però uno stupefacente Antico Testamento elaborato nel corso
dei secoli da un piccolo popolo nomade compreso entro grandi
imperi, e da essi anche dominato, ma distinto dagli altri
popoli soprattutto per un monoteismo che alimenta anche un
acceso nazionalismo. In quei deserti si attuano gli incontri
con i grandi personaggi della protostoria del popolo ebraico
e la minuziosa precettistica dei sacerdoti che contempla
anche i sacrifici cruenti di animali inutilmente salvati
dalle acque del diluvio. E poi incontri anche con i
protagonisti di vicende storiche, fino ai grandi re divenuti
leggendari, Saul, Davide, Salomone, non esenti da vizi e
crudeltà, eppure umanissimi, la cui storia ha ispirato
letterati e pittori, riflesso con i loro drammi della
grandezza di Jaweh. Il quale accetta infine di lasciare la
sua tenda per abitare il sontuoso tempio di Salomone e non
disdegna l’olocausto di numerosi animali.
La storia del regno di Israele e di quello di Giuda è storia
di divisioni, tradimenti e pentimenti, di sottomissioni. Su
tutto, la voce dei Profeti, a volte riottosi ad eseguire il
compito che Dio affida loro, severi, addolorati per le
miserie del loro popolo, sofferenti e incontaminati dalla
cultura dei popoli presso i quali si trovano a vivere nei
tempi dell’esilio. Fino a Giona della balena:
Prima, Giona si ispira soltanto ai
precetti della religione ebraica che giudica rivolti
esclusivamente agli Ebrei; più tardi comprende che il
messaggio divino riguarda tutti gli uomini della terra.
Le sue parole sembrano voler dare ininterrotta
continuità alla pagine del Vecchio Testamento che
confluiscono agevolmente in quelle del Nuovo.
Fino al Battista, non più profeta, non ancora apostolo,
che può solo preparare la strada ad un Altro e poi sparire,
come il sole che, il 24 Giugno, comincia a calare sempre più
all’orizzonte.
I Profeti e la lettura della Bibbia
Stanno i Profeti, terribili e solenni, sul soffitto della
Cappella Sistina da dove lanciano ancora il loro monito.
Nemmeno essi sono riusciti a ricomporre la caduta e a
ricostituire l’armonia originaria che è potuta sussistere
finché è durato lo stupore dell’inizio della vita. La loro
parola possiede autorità divina ed è dura come il sasso;
essi stessi non ne sono che strumenti. Essa si appoggia
sulla certezza che Israele è il popolo di Jaweh, un
privilegio pagato con un’altrettanto grande responsabilità.
Politiche sbagliate di contaminazione, tradimenti religiosi,
ingiustizie sociali, corruzione, l’obbedienza positiva:
tutta la vita di Israele è compresa e giudicata nei canti,
anche poetici, dei profeti che sono un fenomeno singolare,
diversi dai sacerdoti custodi del rituale e da quelli
invasati degli oracoli greci. Essi hanno sostenuto il popolo
con la speranza di una nuova epoca che ritroverà la felicità
perduta.
Attraversare i libri della Bibbia è in realtà un sostare.
Leggere è propriamente riposarsi e far risuonare la parola
senza altro interesse che l’ascolto, volgersi ai richiami di
altri racconti e di altre immagini, trovare il filo che lega
le varie culture. La sosta è un privilegio, una tentazione
per chi, come vocazione, è alla ricerca, a meno che non sia
essa stessa un arrivo. Però, non è la parola dei profeti a
fermare l’anima perché questa non è definitiva e rimanda
sempre a un prima, ai momenti fondanti la storia di Israele,
o a un dopo, di cui essi possono parlare ma che non possono
intuire.
Più dolce, in genere, la sosta sopra i libri poetici e
sapienziali: i salmi, di David, i Proverbi, attribuiti a
Salomone, l’Ecclesiaste-Qoélet, uomo simpatico per quanto
pomposo e sfrontatamente mendace, che all’Alberti
richiama aspetti di Foscolo e di leopardi, il Cantico dei
Cantici, libro poetico dedicato all’amore, fino a quei
meandri, spesso più complicati (delle ambages turbinose
della vicenda storica di Israele), di anime che vissero la
loro vita come un’inquieta e perigliosa avventura:
Tobia, Rut, Giuditta, Ester – le eroine ebraiche – e infine
Giobbe che suggerisce il conforto dell’accettazione: il
Signore ha dato, il Signore ha tolto. Però, la invocata
pietas, che fece muovere i nostri primi passi, sembra
restare ancora inesistente lungo il percorso di questa ormai
disorientante peregrinazione.
Il lungo racconto dei libri biblici
assume qui toni diversi: ora, prevale una solenne
grandiosità; ora, emerge uno spirito animato da
intrepida fierezza, e, non raramente, da grazia
finissima: affiorano costantemente pensieri e sentimenti
gentili: veramente sembra qui dissolversi il peso della
fatica quotidiana, delle imposizioni create dai momenti
della storia, dalle mutevoli e particolari vicende
vissute dall’esistenza di tutto un popolo.
La citazione, valida per tutti i libri menzionati, si
riferisce ai Salmi che richiamano all’Alberti la laude
francescana che
Arriva nell’orto di San Damiano dai
deserti cananei, dopo aver attraversato i sentieri di
Provenza e, prima, quelli dell’Ellade, dove si era
soffermata ad ascoltare, sul Kronion di Olimpia, fra
mirtilli ed alloro, il saluto dell’usignolo rivolto alla
notte che giunge.
Non più preghiera ma lode che ha in sé la sua risposta.
La peregrinazione, a questo punto, non sembra più
disorientata.
Non conosco nessun’altra simile lettura della Bibbia. Qui il
racconto di Moniris in prima persona è solo il prologo di
una profonda riflessione sui libri; neppure, piuttosto un
colloquio, una consonanza, in cui il greco è “schermo” e
metafora dell’autore stesso. Moniris il solitario: la
ricerca non si può compiere che da soli con il bagaglio
personale, poco o molto, di esperienze e dolori,
frequentazioni, letture, affetti. Perciò non c’è
intellettualismo o intento di analisi e spiegazione, solo
quel tanto che aiuti a comprendere più che a capire
razionalmente. Le lettura dell’A.T. dunque non è
religioso-teologica, linguistica o storica o critica, volta
a cogliere come, perché, cosa vuol dire. Così è pure
l’approccio con il Nuovo, nonostante qui si giochi,
soprattutto nei Vangeli, la questione della divinità del
Cristo che giunge a compiere le profezie e la Legge.
Inoltre, non è estranea di solito ai libri biblici la
riduzione a mito, a racconto, a letteratura, con la
conseguenza di una lettura antologica e riduttiva. Giorgio
Alberti, invece, ci spiazza; intanto la sua è una lettura
“totale” nel senso della quantità e in quello della
profondità, e ogni libro è collocato storicamente e
culturalmente. La chiave di lettura è principalmente però
quella esistenziale, affermazione subito inadeguata perché
la dimensione puramente personale non esaurisce la qualità e
la ricchezza della lettura. Vi si scopre una riflessione a
metà fra la poesia e la filosofia, sbilanciata sul piano
dell’ascolto più che su quello della teoria, sostenuta da
una sensibilità affinata e resa estremamente accorta e tesa,
oltre che dal sapore della vita, da una vasta cultura che ha
nutrito lo spirito ed è finalmente entrata a far parte della
natura. Frutto di una curiosità prima, quindi di scelte
quasi predestinate. Perciò, pur seguendo il filo della
ragione nel suo itinerario, la riflessione non è mai
scontata o banale, si innalza al di sopra delle pagine e dei
riferimenti. Le riflessioni aprono altresì spazi imprevisti
sulla letteratura di ogni epoca e sull’arte nella
molteplicità delle sue manifestazioni. La mente interrompe
il filo della lettura, si sofferma sui versi di Omero, di
Dante e di altri, sul messaggio di un quadro, sulle note di
una musica. Sono incisi mai fuori luogo, guidati dalla forza
del pensiero analogico, che segnano i percorsi sotterranei
della cultura occidentale, non senza richiami alla poesia
araba ed egiziana. Sempre con l’attenzione al punto di
partenza, l’Ellade e a quello che sarà il punto di arrivo,
San Francesco, che con Giotto e Dante segna l’origine del
“genio italico”.
Gesù e Francesco
Tocca all’Interludio su Teofane il Confessore (VIII/IX sec.)
collegare il Dio nascosto dell’A.T. con il Cristo del Nuovo,
un monaco seguace di dottrine monastiche che sembrano
anticipare alcune aspirazioni del monachesimo francescano.
Anch’egli donò ai poveri di Bisanzio il suo patrimonio. Il
bizantino Teofane consente all’Alberti di accostarsi al
significato di termini quali teologia, misticismo,
razionalismo, fino ad ora evitati, e di comprendere in
questa sua grande sintesi il pensiero orientale,
irremovibile nella professione di una religiosità
ricchissima di riti e, insieme, sovraccarico di precetti
soffusi di una misteriosa aura di magia, di profezie
cresciute perfino negli orti della superstizioni.
Ma quando l’Alberti si accosta alla delicata tematica di
Gesù, sono i poetici racconti dei vangeli apocrifi e le
strade e gli animali della Palestina, le parole di
misericordia, la novità di un messaggio, che egli contempla,
quasi ignorando la parte drammatica della Passione. Qui, in
quest’ultima parte, c’è un nodo che ci consente di entrare,
forse inadeguatamente, nel suo animo. La Passione e la
Resurrezione di Cristo non sono una sosta, ma una
provocazione: o la morte vergognosa di uno dei tanti messia
o la gloria attraverso la croce di un Dio che muore e
risorge. Può essere un arrivo, ma occorre la fede:
non il “sicuro rifugio”cui si è data sistemazione razionale
o la fede consolatrice che non esce dai limiti
dell’esistenza umana, ma la follia che cambia la
vita, come accadde a Francesco nella sua totale obbedienza
al Vangelo. L’Alberti invece è un profondo umanista, pervaso
di religiosità e con il senso del mistero. Se così non fosse
stato, non avrebbe pellegrinato con Moniris. Egli porta
sempre con sé l’inquietudine della caduta né gli è stato
concesso di giungere all’unità perduta che è il senso di
tutto il suo vagare. Perciò, da laico attento ai messaggi,
di Gesù egli sa cogliere la nuova pietas, l’apertura e la
forza dirompente del suo messaggio, la perfezione delle
virtù proposte, estremamente difficili nel mondo,
specialmente se separate dal divino che le ispira.
Ugualmente, di Francesco, ricercato attraverso i pochi
scritti suoi, i molti di altri e le immagini che i pittori
ci hanno lasciato, coglie la forza della sua azione e il suo
“genio morale”, la “circolarità spirituale” che
ricostituisce l’unità perduta una volta, la forza della sua
persona nella cultura e nella moralità. In Francesco è la
sintesi di tutta la cultura attraversata: il suo
cristianesimo è “greco, latino, barbarico, italico”.
Quel giorno che (Cristo) apparve sulla
terra, esso segnò l’avvio di una storia sconosciuta da
contemplare ora con spirito nuovo: la trama di questa
vicenda si inserì, da principio, fra i miti di altri
mondi, ma, di tutti, finì poi per abbrunare ogni antico
splendore.
Solo, Gesù non è un mito ma il compimento del mondo
antico e l’inizio del nuovo che ancora deve compiersi.
Ma è con Francesco che nasce –
testimone il messaggio della sua predicazione – una
nuova interpretazione della vita: le oasi del deserto
del Sinai sono state sostituite dai boschi di lecci, ed
è un faggio dall’alto fusto che gli è compagno nella
notte della sua trasfigurazione come era, un giorno,
avvenuto per Cristo e, prima ancora, per Mosè e per
Elia.
La rivoluzione delle parabole e delle beatitudini si
completa nel Cantico delle creature, la più solenne, dopo
il Pater noster, e profonda (ma vorremmo dire: fremente e
accorata) preghiera della storia del Cristianesimo.
Tornando a Gesù, l’Alberti sa bene che in lui si compiono le
profezie e che porta con sé il mistero dell’accettazione di
un duro compito e ne sa cogliere l’umana tristezza
dell’incompreso perfino nella morte. Ma si sofferma di più
sulle parabole, sugli esempi e le immagini riportate ognuno
a suo modo dagli evangelisti che ignorano spesso le
improvvise fughe metafisiche, le sintesi nelle quali gli
interventi teologici, filosofici e linguistici avviluppano i
temi. Essi (la frase si riferisce a Matteo) hanno
certamente il vigore con cui l’antico esattore di imposte
era abituato a trattare le questioni del suo duro mestiere.
Gli animali vi ritrovano la loro concretezza senza avere una
vera parte nella gloria del creato. Eppure nella vicenda di
Gesù anche il capro espiatorio, simbolo per gli ebrei della
dannazione, è sublimato come figura di Gesù stesso.
L’agnello di Dio assurge a emblematica
rappresentazione del sacrificio espiatorio. E’ - questa
- la vicenda che costituisce il fascino sconvolgente del
Cristianesimo.
E, come poi Francesco, scelse l’asino come regale
cavalcatura per il suo ingresso in Gerusalemme, trionfale
solo per un momento.
Dietro Gesù, Francesco giunge a portare a compimento al più
alto grado il messaggio cristiano con quella circolarità
spirituale che avvolge tutto il creato. Nessuna cosa ha
inizio e fine in se stessa, ma, portando in sé la traccia
della creazione, ha in essa in suo posto e la sua presenza è
una lode a Dio. Se tutto porta in sé il segno di Dio, tutto
è in rapporto di fratellanza con l’uomo. Da qui il cantico,
compendio di quella complessa concezione umana,
religiosa, poetica, con cui Francesco interpretò ogni
significato e ogni aspetto dell’esistenza. Chi scrive il
Cantico non è certo un semplice. Alberti, che ha una lunga
frequentazione con la sua figura e la sua teologia,
capovolge le consuete e comode interpretazioni del poverello.
Certamente non è una scoperta; già Dante, senza giungere a
definirlo completamente, ne aveva dato la determinazione e
la forza. Eppure la persistente lettura riduttiva lo ha
svuotato del suo originale messaggio e il suo Vangelo si
stempera in sdolcinature che niente hanno di quella
carità perfetta, priva di ribellione ma travolgente, che
è la più alta espressione della sua santità.
La circolarità spirituale del
vangelo di Francesco creò un mondo in cui la pietà era
perfetta, essa offriva la possibilità di
un’evangelizzazione che era rivolta a tutte le genti: ci
sembra di poter dire che questa mèta gli fu in gran
parte negata.
L’Alberti, come si è visto, non è un credente nel senso
pieno del termine per il quale è elementare, non tanto
capire o seguire, ma accettare Cristo o Francesco, l’alter
Christus. Magari senza porsi interrogativi. Egli è un
pellegrino della spiritualità – e della cultura che la
sostiene – che sa riconoscere la sorgente della novità di
cui esse si sono fatte portatrici: l’obbedienza al Padre e a
Cristo, e la carità. E sa riconoscere la scintilla del
divino perché i suoi occhi sono puri. Sa anche che la nostra
storia è stata resa grande proprio a partire da quella
sintesi che Francesco ha compiuto attraversando il mondo
classico, biblico e barbaro: ricostituire l’unità tra uomo e
natura, ridare alla creazione la sua maestà in quanto
testimone di Dio. Il Vangelo di Francesco non si è attuato
per nuove cadute e nuove divisioni: egli è ridotto ad un
santino mentre la creazione è di nuovo il luogo dove si
esercita la violenza senza pietà.
Epilogo
La figura di Francesco, la sua morte con quelle allodole che
con il loro canto sembrano esprimere un presentimento di
lunghe storie di incomprensioni, chiude dunque il lungo
peregrinare per i deserti fino al nostro Appennino. Moniris
non ha trovato certezze o risposte. La storia del “genio
italico” che da quello “morale” di Francesco prende vita,
non lo riguarda: egli procede ancora per un cammino che è
solo suo. Non resta che tornare ad attraversare ancora la
solitudine dei deserti, ricominciando dall’Ellade immortale.
Il secondo viaggio, e, se necessario, altri ancora, saranno
fatti con occhi nuovi, con la mente resa attenta dalla
conoscenza e il cuore già colmo di sensazioni. Forse ancora
Moniris è confuso e pieno di dubbi, ma il nuovo viaggio non
sarà la ripetizione del primo, bensì la ricerca avviata da
una nuova speranza di trovare altre soste che segnino il
cammino alla ricerca di un mondo che giunga a non sprecare i
messaggi e, finalmente, a suggerire le linee di una nuova
moralità. Un epilogo che è un nuovo inizio, come la vita che
non risparmia dolori, accettati come componente essenziale
dell’esistenza. La sofferenza è la parte oscura della vita
dell’uomo e anche la sua ricchezza, se ha un senso. Bisogna
giungere a lodare anche per la “sorella morte”.
Il senso della bellezza; la comunione
dei sentimenti; il coro armonioso; il manifestarsi di
uno sconosciuto rapporto fra tutte le creature;
l’osannate ringraziamento rivolto a Dio – questo, ed
altro ancora, giungono ad esprimere un’interpretazione
nuova dell’esistenza, pongono ogni antica storia sotto
la luce di pensieri poc’anzi ignoti: segnano, dunque, i
punti di arrivo di una fede che ha logorato, nel lungo
percorso, ogni presenza estranea ai suoi richiami per
offrire alfine la nuda anima di se stessa. I soli motivi
di una religiosità miracolosa potrebbero forse suscitare
soltanto parziale consenso: ma la lezione francescana è
riuscita a penetrare in quei mondi dove i valori e le
conquiste riguardano non tanto i precetti indiscutibili
di una religione rivelata, bensì i caratteri
inconfondibili con cui vengono espressi i momenti nuovi
di un’antica e complessa civiltà.
L’Alberti è fuori di ogni schema, si è detto. Si muove
con la sicurezza di chi le cose le ha meditate e
interiorizzate e di chi ha molto indagato, anche in ambiti
inusuali, nella cultura che è alla base dello spirito
europeo, tra i miti e le storie del mondo occidentale.
Questo, però, è solo un accenno per un’opera così grande nel
contenuto e nel significato. Non è una lettura facile, ma
sicuramente ricercata e apprezzata da chi s’interroga e non
sa darsi risposte, da chi cerca un compagno per muoversi tra
le pagine di un libro terribile come la Bibbia, da chi vuole
ascoltare una voce diversa, da chi sa e vuole cogliere nelle
cose la poesia e la speranza, da chi ama il bello in ogni
sua manifestazione. Può bastare una parte, un capitolo, una
pagina, seguendo il suo modo diacronico di procedere e il
suo stile denso, per incontrare un uomo che, nelle sue
interpretazioni, dà tutto di sé.
Giuliana Maggini |
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