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Presentazione di Paolo Bà
Il Liceo “città di Piero” di Sansepolcro ha edito
come supplemento al suo periodico “Bibliomedia” il saggio
del prof. Giorgio Alberti, Francesco, Giotto, Dante e le
origini del genio italico. Il professore era nato e vissuto
a Sansepolcro, si era laureato alla Università di Roma
sostenendo una tesi sulla poesia di Umberto Saba con i
famosi Sapegno, Ungaretti e Debenedetti. Era stato
insegnante nelle scuole medie e poi nell’Istituto Tecnico
Commerciale “Fra Luca Pacioli” di Sansepolcro, dove vi aveva
curato la biblioteca che ora porta il suo nome. Affabile e
arguto conversatore, amante delle letture aveva pubblicato
nel 1944 Primi frammenti, nel 1946 Saggio; un romanzo
Il
silenzio delle campane che ebbe due edizioni una nel 1970,
l’altra nel 1999. Nel 1994 erano apparsi in vetrina Appunti
su Verga Pascoli Saba. Attendono la pubblicazione i saggi
contenuti in Pellegrinaggi terrestri (La mia sala… insieme
con i miei discepoli, Peregrinatio animae ad querendam
pietatem). Una nota di redazione avverte che il saggio
Francesco Giotto, Dante, ecc. fa parte di quella trilogia,
appunto, inedita. Il professore ci ha lasciati il 1° maggio
2001.
Ad apertura del libro Francesco, Giotto, Dante, ecc.
s’incontra subito l’incanto del paesaggio appenninico,
quello non lontano dalla Verna: il soggetto narrante
ripercorre con gli occhi della fanciullezza e
dell’adolescenza i sentieri francescani da Montecasale a
Cerbaiolo, di qui alla Verna per ridiscendere verso
Monteauto e giù, rasentando le mura di Sansepolcro, a San
Lazzaro, dove San Francesco si ridestò dall’estasi e che per
i burgensi era ed è una ‘passeggiata quotidiana’. Infine
Assisi fu la meta per visitare il centro della vita di
Francesco e della sua storia affrescata nella basilica. Già
questi schizzi di vita vissuta e la visione dello scenario
naturale mettono il lettore a suo agio e ottimamente
predisposto alla lettura specialmente se ha conosciuto
l’autore. Invero, citando frasi intere dal testo di Giorgio
pare che la sua voce risuoni ancora armonica e controllata;
certo che nella conversazione lui teneva desto l’uditorio
(una o più persone che fossero all’ascolto) con battute di
un umore acuto e gradevole o con aneddoti illuminanti che
riverberano pure nella carta scritta; qui la verifica della
parola e del periodare si fa più attenta, tuttavia sono
possibili pure le divagazioni, che un altrettanto vigile
lettore s’accorge esser corollari del tutto pertinenti.
Cerchiamo di individuare subito alcuni brani dove penso che
la tesi del testo sia sintetizzata:
«Francesco; Giotto; Dante: i padri di un’Italia che trova
nei loro messaggi la propria unità spirituale che è poi
anche unità territoriale, e che infine è più profonda di
quella politica: è l’unità della cultura, l’anima cioè di un
popolo e della sua lunga storia: da sola rappresenta ed
elabora le qualità più intime di una civiltà / I tre padri
non parlano ad un’Italia inesistente: si rivolgevano ad una
terra viva, materialmente e spiritualmente» (p. 77).
Gli enunciati abbisognano di un’avversativa per completarsi
nell’argomentazione:
Ma «oggi, molte di quelle risonanze sembrano smarrirsi in
spazi indefinibili e senza nome, urtano rumorosamente contro
l’aggressività di una rientrante barbarie», che svilisce da
troppo tempo ormai la vitalità civile «nella storia del
disamore». (p. 16)
Le frasi riportate e la denuncia testimoniano il fine civico
e morale che sempre mosse l’impegno letterario e didattico
di Giorgio Alberti. I modelli per tale impegno agiscono
nelle persone menzionate nel titolo e non solo, ma anche
sono presi in considerazione Machiavelli e Vico, Galilei e
Vivaldi, in più i personaggi che ruotano attorno a quelle
figure di spicco, fra le quali Francesco, ovviamente, occupa
il maggior spazio, perché, avverte Giuliana Maggini nel
presentare il libro, «Il mondo spirituale e morale di
Francesco travalica i suoi pochi scritti. Allora l’indagine
per accostarsi a lui deve necessariamente ampliare e
cogliere gli echi del suo tempo e di quello immediatamente
successivo» (p. 10). Il mondo dell’arte figurativa è così
compreso nel suo passaggio dalla iconica fissità bizantina a
quella già più mossa del Cavallini e poi dei senesi, di
Cimabue… fino al realismo giottesco e, nel campo letterario,
all’intuizione del sublime nella poesia di Dante.
Negli scritti di Alberti, Francesco si fa dunque perno come
persona che ha incarnato l’insegnamento di Cristo, l’ha
imitato con quel tanto di aderenza e distacco dal terreno
che gli fece riscoprire la natura in ogni istante come dono
prezioso; a quel punto il figlio del drappiere si profila
quale nuovo maestro che insegnò a “vedere” la totalità e il
singolo atomo del creato con entusiasmo e pietas. La
pietas
del poverello d’Assisi unita alla grande caritas divenne il
fuoco costante d’amore trasformando lo stesso Francesco nel
“serafico” che convinse vescovi e papi, discepoli e artisti
che bisognava affrontare la conoscenza dell’animo umano e
della natura da una prospettiva povera ed essenziale;
visione, questa, che preparava ad uscire dal gretto
individualismo per spaziare con animo deciso «in quell’armoniosa
intesa che corre fra uomini animali paesaggio: la
circolarità spirituale di Francesco» (p. 27)
È una conquista sui momenti bui e disperati, la sorridente
serenità del poverello «quando sembra sfuggirgli la capacità
di comprendere i segnali divini»; ma «se Dio fosse soltanto
immaginabile, infinito ed eternità costituirebbero per
l’uomo rappresentazioni comuni e quotidiane» (p. 31),
commenta Alberti. Ben a ragione, perché viviamo in un mondo
che si autogiustifica e che considera solo l’universo
materiale; eppure nella sua fisicità esso costituisce per
gli animi sensibili l’inesauribile causa di smarrimento, di
stimolo agli interrogativi sui perché dell’esistenza.
Seguendo la Vita Major di Bonaventura di Bagnoregio, Giotto
nonostante tutto il suo realismo, avvertì il brivido del
mistero risolversi in Francesco nell’accettazione serafica
della vita, la colse fra l’aridità estrema del paesaggio,
dove l’albero solitario è prezioso quanto l’acqua che sgorga
dalla roccia, quindi fece risaltare l’aspetto sereno della
sua figura quale emerge dai “superati dissidi”: cioè dai
conflitti interiori, dagli insulti umani, dalle macerazioni
penitenziali. Il risultato è che l’ansia spirituale del
cristiano si rispecchia e si quieta nelle composizioni
pittoriche avviate ad una maestrìa la quale già detta «le
indicazioni e i precetti del nuovo messaggio rinascimentale»
(p. 52).
Dante, irrequieto ricercatore, anima il paesaggio persino
nella descrizione topografica dei luoghi vissuti dall’assisiate,
e geniale è nel definire la Verna «crudo sasso intra Tevere
e Arno»; la sua adesione a Francesco è totale perché questi
vive il mondo inaugurato dal Messia come orizzonte di pace,
già pronosticato da Isaia: «Il lattante si trastullerà sulla
buca dell’aspide, il bambino metterà la mano nel covo dei
serpenti velenosi» (Isaia, 11,8), che è il mondo possibile e
sùbito da chi acquista l’innocenza; ma l’Alberti nota in
questa sublimità delle aspirazioni francescane quasi «il
nucleo di un sogno» (p. 51).
L’autore segue le fasi essenziali del cammino spirituale di
Francesco non solo secondo le interpretazioni di Giotto, di
Dante ma pure di altri artisti e biografi, e attraverso la
loro ottica traccia al medesimo tempo la peculiarità del
genio italico. Ne sortisce un Francesco, nella sua umiltà,
con un piglio eroico ed epico opposti al mondo sgargiante,
alto mimetico dell’aristocrazia feudale: il “poverello”
negando il mercantilismo nascente (anche quello del padre)
impose una visione realistica, basso mimetica (le umili
cose, la quotidianità in armonia) che poi sarà chiamata ‘borghese’;
ma lo spirito che animava questa nuova mentalità, annota l’Alberti,
fu coltivata poi, purtroppo, da non molte persone:
«Per mezzo dei colloqui con le bestie – cum tucte le tue
creature – Francesco aveva costruito un solido e nuovo mondo
morale, avvìo ad una visione cristiano-francescana che
rimase, forse, conquista isolata di alcuni spiriti i quali
non diffusero – non riuscirono a diffondere – le verità più
profonde del messaggio.» (p. 33)
La riforma cattolica infatti, se pur auspicata da “tanti
spiriti” di quei tempi, non poté avvenire; ma non si dia
tutta la colpa alla Chiesa, come vuole gran parte della
storiografia moderna, perché non fu solo la corruzione, che
c’era da per tutto, bensì altre cause di cui ancora paghiamo
le conseguenze! Ma questa è un’altra storia per davvero, e
anche da riscrivere.
La vita, o meglio l’esempio della vita di san Francesco
trasformò arte e poesia italiana; il suo messaggio, così
acquisito e consegnato alla storia, si palesa come quinto
vangelo: «il frainteso e inascoltato vangelo italico. Il
vangelo nato sulle coste fiorite degli Appennini a
integrazione dei quattro vangeli giunti a noi dai deserti»
(p. 27).
Un Francesco, considerato dal punto di vista laico, è a
tutt’oggi ammirato; ma unicamente ammirato ! solo pochi
“spiriti” ne seguono le orme con cilicio e penitenza;
comunque è interessante e veramente vitale questa indagine
del genio italico nella interpretazione francescana di
Giotto, di Dante, proprio per quella presa sulla realtà che
soltanto i mistici come Francesco possono avere e sanno
insegnare con la loro costante contemplazione della vita e
della morte. È, quello, un appiglio al concreto che, per un
paradosso può condurre alla visione realistica di un
Machiavelli, «impegnato nella ricerca dell’utile», è vero,
ma «sempre inserito in una concezione idealizzata della
storia» (p. 82), esso può indirizzare alla matematica
contemplazione del creato di Galilei, dar le fondamenta alle
tesi sulla storia di Vico, e la pietas può raggiungere sino
alla musica di Vivaldi che, con le sue armonie, rendeva
splendide le sgraziate tose nell’Ospizio di Pietà a Venezia.
Paradosso, ma non troppo! perché in quei personaggi, da
Giotto a Vivaldi e oltre, circolavano quei valori comuni
sviluppatisi da un Francesco che occidentalizzava
«definitivamente, dopo l’opera svolta da Benedetto da
Norcia, l’avventura cristiana, - la rendeva - veramente
mediterranea; anzi, per molti aspetti, - essa divenne -
appenninica» (p. 37).
Dall’unità territoriale e spirituale “appenninica” all’unità
territoriale e spirituale italiana ! da cui poi s’è
sviluppata la cultura italiana col suo genio. Questa è una
concezione nuova per quel tanto di baricentro che sposta
l’origine della civiltà moderna italiana dai grandi palazzi
urbani ai campanili dei borghi più periferici, certo; ma la
tesi si presenta ancor più interessante perché si evidenzia
come un principio da sostenersi oggi nell’era delle
integrazioni etniche e razziali, e salutare pure, senza
nulla concedere a vani nazionalismi, perché il rischio
maggiore (sappiamo tutti benissimo) sta nel perdere le
nostre particolarità nate nelle cittadine e nei borghi.
Addirittura (come ebbi a riferire in altre occasioni) il
poeta irlandese Patrick Kavanagh (1904 – 1967) con la sua
verve paradossale si spinge a sostenere che tutte le grandi
civiltà sono basate sul parochialism (campanilismo), come la
civiltà greca, la israelita (o quella delle città stato
italiane) o quella inglese, e non sul “provincialismo”;
perché, secondo lui, il “provinciale” non si fida di quel
che vedono gli occhi suoi finché non ha sentito ciò che la
metropoli, dove è puntato il suo sguardo, ha da dire su
qualsiasi argomento; nel mondo poetico, egli dice ancora,
quel che conta è la profondità non l’ampiezza, quindi «Parochialism
is universal; it deals with the fundamentals».
Per il genio italico, ‘anzi, appenninico’, Alberti dunque
passa in rassegna le personalità dell’arte, figurativa e
poetica, da quelle senesi a quella del Mugello (Giotto) e a
quelle dell’Italia centrale del pellegrino Dante; porta in
causa Benedetto da Norcia e Romualdo di Camaldoli, cioè
coloro che resero occidentale la spiritualità orientale; ma
egli traccia pure collegamenti con l’arte greca, seguendo
associazioni di idee e di immagini, pensieri e concetti che
vanno poi ad abbracciare altri secoli. Abbiamo così un
quadro della civiltà italiana dal Duecento, fino al
Seicento.
Dai brevi accenni si può constatare come il saggio contenga
l’esperienza di un fine letterato che narra le vicende alla
maniera di un racconto incantevole, dove la ‘dottrina’ è
porta come digressione interessante, come aneddoto o
curiosità; egli rende così la lettura piacevole e la storia
affascinante tanto che l’attenzione rimane sempre desta per
le continue sorprese. Quindi il libro è da leggere per
l’ameno profitto dell’amante dell’arte e delle lettere, per
il curioso dei siti artistici, o quelli incontaminati e
solitari; un altro motivo di lettura sta nel trovarvi la
conferma per reclamare la pubblicazione degli inediti e, per
ultimo, ma proprio ultimo, anche per verificare che il
concetto di campanilismo (tirato da me in ballo) ha una
connotazione del tutto positiva, quanto a dire luogo dove
non si bada alle mode ma si è intenti ad elaborare Etica e
Bellezza, pur nei drammi e difficoltà varie, e lì sorge il
genio.
Etica e Bellezza; sentimento della morte e il suo mistero!
Un’anima visiva e rammemorante come quella di Giorgio
Alberti non poteva che incontrarli nel suo luogo natale, nel
“fiorito Appennino”, dove fin da fanciullo aveva potuto
respirare nelle plaghe in cui Francesco aveva sofferto e
distribuito gioia, dove Giotto e Dante avevano ambientato i
loro discorsi sul Santo, dove Piero della Francesca aveva
perfezionato etica e bellezza in pittura, infine dove
Giorgio Aalberti stesso aveva sperimentato di persona gioie
e sofferenze. Di queste egli rende conto in Il silenzio
delle campane, pagine dal tono elegiaco dove emergono
espliciti i doni di un’anima visiva e rammemorante: «i miti
della lontananza; il remoto e il perduto della vita» (p.
20), con queste doti sono rievocati i rimpianti intessuti di
allegrie e di infinito dolore, come li seppe provare un
giovane nel passaggio dalla adolescenza a una precoce
maturità durante l’ultima guerra. E qui ci sono pure i podromi per acquisire la circolarità spirituale francescana
che si chiarisce nel saggio, di molto posteriore, a cui
abbiamo appena accennato sopra.
Il silenzio delle campane è invece un romanzo autobiografico
che di autobiografismo non ha che lo spunto per simboli più
vasti, perché esiste anche una generazione che dell’ultima
guerra fu testimone dolente: usciva allora dall’infanzia o
dall’adolescenza, in mezzo alla morte dovette affrontare la
dura vita. La storia di un essere umano dalla fanciullezza
alla maturità, è narrata in forma epistolare, o quasi, a
Marta. Il tono, pacato ed intimo, ha sussulti di accenti
narrativi animati e vibrazioni elegiache che si distendono
nei nodi cruciali delle vicende. Tutta la storia è immersa
nell’alone del ricordo, dove persone, stagioni, sentimenti
si dipanano inesorabili e fluidi sul filo del precario
equilibrio esistenziale del “prima” e del “dopo” di un fatto
significativo o mortale, perché lì la rimembranza fissa
l’immagine più viva e lucida, e lì risalta il mistero della
vita e della morte. E così gli avvenimenti dell’ultima
guerra sembrano avere preminenza per la loro drammaticità,
ma non offuscano quelli della fanciullezza, i quali con brio
sono delineati: i primi film «nell’ampio stanzone, chiesa e
cinema, ritrovo della letizia domenicale» (p. 52), le
passeggiate per il vecchio borgo, solitarie o con gli amici.
Fra questi gli abitanti di Sansepolcro riconosceranno
qualcuno e alcuni tipi ormai scomparsi, come la maestra
incolpata di avere abbandonato una testa di coniglio cotto,
ben rosicchiata, in una sala cinematografica. La storia del
lugubre teschio di coniglio, troppo lunga da riferire,
contiene già, su un piano di humour, la poetica del romanzo.
Poi le pagine sul tempo di guerra trascorso nei pressi del
Monte Sovaggio (tra Caprese Michelangelo e Pieve Santo
Stefano) toccano accenti lirici, indi tragici con la
percezione di una sorte ineluttabile, particolarmente
misteriosa e avversa, contemplata con angoscia mai
rassegnata eppure sopportata. Quel senso del fato torna poi
ad essere studiato dall’Alberti nella prosa del Verga,
questi lo narra “con voce sua” re inventando quello della
classicità omerica e tragica.
Sul romanzo varrà la pena di tornarci di dovere e per esteso
un’altra volta, intanto così, nominando il romanziere
siciliano, siamo arrivati ad alludere a un testo che
raccoglie tre saggi, si intitola Appunti su Verga Pascoli Saba. Questi saggi, umilmente chiamati
Appunti, si
strutturano come una guida alla lettura dei tre artisti, con
tanto di veloci introduzioni e biografie, accenni
storico-letterari, bibliografie, evoluzione delle loro
opere; ci sono i commenti e le analisi dettati dalla lunga
frequentazione dell’autore con i testi di prosa e di poesia
di tutta la storia della letteratura italiana. Erano sorti,
dice il nostro autore, per una esigenza, anzi per un’ansia:
«L’ansia di trovare veste poetica per i tempi di una
prosaica esistenza ci rese lettori attenti verso certa
poesia e soprattutto disposti, alfine, ad una rinnovata e
convinta compassione, rivolta verso gli altri e quindi, di
riflesso, verso noi stessi» (p. IX).
Si tratta, come si vede, di uno spezzare il pane «di certa
poesia» per condividerlo con una «rinnovata e convinta
compassione», cioè con pietas francescana che tutto penetra
con la sua “circolarità spirituale”; con questa ansia e
pietas si rivolge ai suoi studenti e anche ai lettori. La
pietas è tutta laica, come laica è la ricerca fra il vero e
il mistero, operata dai tre maestri che rimangono nella
dimensione tutta terrena delle domande assolute le quali,
perciò, restano inesplicabili e mute come le campane del
romanzo. Ma, scriveva Maritain a Jean Cocteau, l’artista con
le sue opere completa e arricchisce la creazione di Dio.
Alberti sceglie i tre autori (‘una certa poesia’) per una
‘certa’ sua affinità con la loro poetica, dove il luogo
vissuto determina l’ottica del ‘vedere’ e dello scrivere. Il
senso del fato verghiano che dà voce tragica agli
“sconfitti”, è da ritrovare in qualche misura nel romanzo.
Il sentimento della morte e del mistero pure è analizzato
nelle liriche del Pascoli, che gli è vicino per quell’anima
visiva e anima rammemorante pronte a individuare nelle
“cose” le situazioni comuni «ai mondi segreti di tutto ciò
che vive» (p. 65). Il fine lettore Alberti, non tanto
critico (non gli sarebbe piaciuto questo epiteto) è severo
nel cogliere la differenza fra autobiografismo invadente e
poesia genuina e, questa, è ascoltata nella voce più
segreta. Egli ritrova la sua solitudine in gran parte della
poesia di Umberto Saba che, poi, è l’autore su cui svolse il
lavoro di tesi. Anche con il triestino è vigile a
distinguere ciò che è nuovo da ciò che rientra negli
inevitabili influssi di altri poeti. Con lui il suo animo
entra in sintonia perché con lui sente che tutto ciò che
vive è toccato dalla sofferenza (p. 159), quindi le “cose”,
i referenti delle sensazioni, si amalgamano alle lontananze
incolmabili, alle immagini vaghe e misteriose (p. 161) che
partecipano al sentimento dell’infinito e poi a quello della
morte che ad esso si associa (p. 167); ma questi sono «i
consolatori e insieme perigliosi sentieri della poesia» (p.
167) commenta Alberti.
Certamente si tratta di temi fondamentali della esistenza
(oggi eclissati dalla furia effimera del vivere o dalla
spasmodica voglia di aiutare gli altri senza rinunciare a
nulla, o quasi!); argomenti esistenziali, son dunque quelli
sopra accennati, verso i quali i poeti non si esimono di
indagare, ciascuno con la propria voce, e di ciascuno dei
tre, ma anche di Francesco, di Giotto, di Dante, … di
Vivaldi, ecc., mentre l’Alberti ne ragiona rimane la sua
traccia. Sì, perché vita privata e personalità, cultura e
ricordi con memorie dei sentimenti e delle poesie o brani
preferiti, nel discuterne con gli studenti e poi
scrivendone, son posti su un piano metafisico, è stato
detto; ma direi su un piano di metascrittura albertiana, o
meglio, son posti su un livello speculare dove appaiono i
tratti autobiografici del sensibilissimo Giorgio, lì si
delinea un autoritratto del poeta Giorgio Alberti. Paolo Bà |
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